In un’occasione così importante e nel ricordo di quel’11 Maggio, oggi a distanza di 71 anni vogliamo riportare le parole che adoperò il senatore Cesare Merzagora, Presidente del Senato dal 1953 al 1967, nonché Presidente supplente della Repubblica Italiana nell’ultimo semestre del 1964, per commemorare il Presidente Luigi Einaudi.
“Cesare Merzagora, Presidente.
PRESIDENTE. (Si leva in piedi e con lui in tutta l’Assemblea). Onorevoli colleghi, una grande figura è scomparsa.
Il senatore Luigi Einaudi è morto il 30 ottobre, proprio quando il decorso del male che lo affliggeva lasciava sperare che egli potesse vincere l’insidia, lenta ma inesorabile, della sua luminosa vecchiaia.
Riassumere, nello stretto schema di una commemorazione, l’opera del grande liberale scomparso, nel campo scientifico, politico, giornalistico ed umano, è cosa pressoché impossibile, ed io me ne scuso in anticipo.
Le tappe della sua vita – ciascuna delle quali costituirebbe da sola titolo di orgoglio – sono troppo note e così intimamente legate alla storia del nostro paese perché io mi soffermi a rievocarle: laureato a 21 anni; docente universitario e giornalista a 24; titolare di cattedra a 28; senatore del Regno per meriti scientifici a 45; governatore della Banca d’Italia a 70; membro della Consulta nazionale, deputato all’Assemblea Costituente e membro di diritto del primo Senato della Repubblica; Vicepresidente del Consiglio e ministro del bilancio; Presidente della Repubblica a 74; senatore a vita a 81 anni.
Che cosa dice, in sintesi, questo prodigioso curriculum?
Dice che egli si affermò prestissimo nel cammino che gli era congeniale; che non si sottrasse ai doveri che il prestigio della dottrina e la dirittura dell’animo gli imposero ben presto, anche nel campo politico; dice, infine, che egli concluse la sua operosa esistenza con l’assunzione delle più alte e gravose responsabilità che possano essere offerte dalla vita pubblica.
Una perfetta armonia collega ed accorda ad un altissimo livello tutta la sua vita di scienziato, di politico e di uomo, attraverso la costante, impetuosa difesa della libertà. Quella libertà che, nello scrupoloso rispetto dei diritti altrui, è l’unica compagna di ogni vera conquista, per gli uomini e per i popoli; che combatte il privilegio e l’arbitrio, l’ingiustizia e la miseria come altrettante sue negazioni. Quella libertà che non ammette l’equivoco e la demagogia, la costrizione e la violenza – strumenti, questi, propri di coloro che l’avversano; che si erge a difesa della cultura e combatte l’ignoranza, oscura mortificatrice della dignità umana.
In omaggio a questo profondo convincimento – sempre propugnato con volontà tenace e quasi testarda – fu tra i firmatari del manifesto crociano del 1° maggio 1925 e lasciò anche il grande giornale al quale collaborava quando, alla fine dello stesso anno, la più rassegnata remissività doveva prendere il posto della piena indipendenza.
Sempre in omaggio alla libertà – che per lui fu un bene totale ed indivisibile – Einaudi si oppose persino al Croce, il quale affermava essere l’economia di mercato soltanto uno dei metodi che il liberalismo può usare o mettere in disparte, secondo il momento e le circostanze; e, prima ancora, giovanissimo, lavorò molti anni per chiarire e difendere i concetti di una “imposta sul reddito consumato” che salvasse il risparmio (cioè il reddito divenuto capitale), intangibile, a suo avviso, come fonte di produzione e garanzia di libertà individuale.
Con perfetta logica e linearità di idee, le sue battaglie si spostano da destra a sinistra, quando le esigenze del momento lo richiedono, e noi tutti ricordiamo Einaudi flagellatore severo tanto dei monopoli industriali, dei protezionismi e delle situazioni di privilegio, quanto degli uomini d’affari spregiudicati che, dopo la prima grande guerra, tentarono l’assalto delle maggiori banche per mettere le mani sul risparmio da queste raccolto.
Con la stessa coerenza, lo vedemmo impegnato, in tenace battaglia, nel secondo dopoguerra, contro gli speculatori della nostra moneta e gli accaparratori di ogni genere, con drastiche riduzioni creditizie; come lo vedemmo battersi contro il burocraticismo soffocatore che, accentrando tutti i poteri dello Stato, mortifica la libertà individuale, non soltanto nel campo economico.
Fu, pertanto, conservatore e progressista ad un tempo senza mai essere in contraddizione con se stesso, ma in funzione della difesa della libertà, quando e sotto qualsiasi forma venisse offesa, disposto sempre, come abbiamo visto, a pagare anche personalmente il prezzo di questo atteggiamento.
La sua terra, il Piemonte – nella cui tenacia egli parve sempre specchiarsi nei momenti più duri, con compiaciuta fierezza – fu ed è orgogliosa di questo suo figlio.
Luigi Einaudi fu maestro a migliaia di studiosi che, pur oggi dispersi nel vasto mondo nazionale ed internazionale dell’economia, della finanza e della cultura, si riconoscono – malgrado le più diverse impostazioni politiche ed ideologiche – per il comune denominatore di serietà e di chiarezza d’analisi, assorbito dal grande Scomparso.
Lunga fu la sua attività nel campo dell’insegnamento, ma la sua altissima fama di economista si allargò soprattutto attraverso continue divulgazioni giornalistiche, nelle quali, alla scultorea validità dei concetti, si abbinava una semplicità di espressione comune soltanto in coloro che hanno chiarezza d’idee.
Per questo, fu sempre nemico di quelle formule, care agli astrattisti della politica e dell’economia, che tendono a velare, con arabeschi intellettualistici, l’incertezza e la confusione del pensiero.
Come divulgatore di princìpi economici, nei suoi libri, sulla stampa periodica e quotidiana, fu impareggiabile, ed i suoi articoli gli crearono una seconda e più vasta collana di estimatori che, come i suoi studenti universitari, assimilarono la validità delle sue tesi.
Tutti noi, del quarto e quinto Gabinetto De Gasperi, lo ricordiamo alla fine delle sedute del Consiglio dei ministri, nei periodi preelettorali, quando i colleghi gli si affollavano attorno per strappargli, nella fretta confusa e nella presunta stanchezza degli ultimi minuti, aumenti di stanziamenti e di spese.
Lo rivedo ancora, energico e fresco più che mai, lo sguardo severo, i gomiti puntati sul tavolo, trattenere, con le mani che parevano divenute artigli, i disegni di legge già approvati (quasi temesse glieli volessero portare via per renderli ancora più dispendiosi di quanto non fossero), come una vecchia pianta d’ulivo trattiene fra le sue nodose e ritorte radici la terra soffiata da un vento dissipatore.
E viene da sorridere se riandiamo con la memoria ad alcuni rilievi che, nel 1948, qui gli furono mossi a proposito delle spese e degli stanziamenti presidenziali: noi tutti ci auguriamo che quanti amministrano i denari dello Stato, in ogni settore, siano sempre scrupolosi come Luigi Einaudi.
La sua azione per la salvezza e la saldezza della lira, che trovò, anche fuori dal Governo e dal Parlamento, nel dottor Menichella, allora governatore della Banca d’Italia, l’alfiere maggiore e la guardia più implacabile e meritoria, è troppo nota e vicina a noi per essere qui ricordata. Dirò soltanto che anche la manovra del controllo quantitativo del credito si collega a quel “governo delle cose concrete” ricordato dianzi.
Io credo che Ferrara, Pareto, Pantaleoni, saranno onorati, nella loro memoria, se noi poniamo accanto ad essi Luigi Einaudi.
Come Presidente, eletto dopo Enrico De Nicola, il suo stile fu nobilissimo ed il suo lealismo esemplare, al punto che egli poté ricordare, nel suo messaggio iniziale e con implicita fierezza, il passato convincimento monarchico.
In questa – come in ogni circostanza della sua vita – il senso dello Stato e la religiosa dedizione alla cosa pubblica prevalsero, in lui, saldissimi, così che l’apporto che egli seppe creare al consolidamento ed allo sviluppo del nascente ordinamento repubblicano fu tale da guadagnargli il rispetto di tutto il mondo politico italiano.
Quali furono le componenti del suo stile? La modestia e la parsimonia; il rispetto dei diritti di tutti; l’amore per la famiglia, per la sua terra, per la patria; il rispetto, pur sempre vigile, delle prerogative del Parlamento e del Governo; la paterna larghezza di consigli, generosamente forniti sempre nelle forme più discrete.
Le sue azioni ed i suoi interventi erano così poco appariscenti che sembrava quasi egli non esistesse, mentre la sua presenza subito si rivelava, non appena ve ne fosse stato bisogno, anche con quegli appunti confidenziali di cui fecero tesoro tutti i ministri, perché dettati da una mente superiore e da un animo disinteressato.
Se è vero che oggi vi è la tendenza, da parte di alcuni, se non di molti, a considerare gli uomini, non in funzione del loro intrinseco valore e dei reali benefici che recano al paese, ma per il male che possono fare alle persone o per gli indebiti vantaggi che, con le loro cariche, possono dispensare, noi siamo certi di tributare a Luigi Einaudi l’elogio migliore affermando che egli, per tutti costoro, contava poco o nulla.
A chi poteva far male o giovare quel piccolo, distinto e vecchio signore, estremamente perbene; quel cristiano dagli scrupoli istintivi ed invincibili, incapace persino di pensare ad una qualsiasi macchinazione? Egli fu riguardoso e tollerante con tutti. E anche quando si trovava di fronte ad azioni o tesi oscure o infondate per la sua mente di scienziato e per il suo animo di umanista, si limitava a sbarrare gli occhi per la sorpresa, e poi accennava quel sorrisetto arguto e fine, quasi canzonatorio, che sembrava portare soffusa sia l’impronta del suo intelletto superiore, perennemente coltivato dalle letture e dagli studi, sia quella della sua buona terra piemontese nella quale affondava il bastone di agricoltore appassionato ed avveduto.
Quel sorriso era l’unico rimprovero che la sua cultura riservava all’ignoranza altrui.
Luigi Einaudi coltivava gelosamente le sue vecchie amicizie, però sentiva anche l’affetto ed il rispetto per gli uomini nuovi incontrati durante gli ultimi lustri della sua attività di ministro e di Presidente della Repubblica.
Chi gli fu vicino, come De Gasperi, Sforza, Vanoni – per citare soltanto tre grandi scomparsi -, conobbe tutto il valore della sua amicizia, non ricca di promesse, di lodi o di parole, ma calda e generosa di collaborazione.
Nòon farò certamente un torto alla sua grande figura aggiungendo che fu più stimato che popolare; anche perché mai ricercò la popolarità, troppo facile e òtransitoria per essere da lui ambita.
Nemmeno farò torto a Luigi Einaudi affermando che, soltanto alla fine del suo mandato presidenziale, tutti gli italiani si resero pienamente conto del grande valore di questo altissimo personaggio rimasto poi isolato – ma non solo – in un mondo politico nel quale alcune storture turbavano la sua coscienziosa probità. Se la sua riservatezza di Presidente della Repubblica gli impedì di formulare aperte denunce, la sua coraggiosa onestà non gli fece certo lesinare il plauso più vivo a quelle degli altri.
Egli vedeva con filosofica serenità le sue “prediche inutili” ricongiungersi, nell’apparente indifferenza, a quelle ben più veementi del grande sociologo e sacerdote siciliano, da lui nominato senatore a vita, forse nella sicura intuizione di dover combattere, su piani diversi, la stessa battaglia.
Alla fine del suo mandato, egli lasciò il Quirinale con una patetica semplicità, degna di figurare in una antologia; e noi tutti rivediamo Luigi Einaudi, solo col suo passo incerto, nello sfondo i corazzieri in lenta dissolvenza, lasciare il grande cortile del palazzo per incamminarsi nuovamente verso la sua casa, i suoi libri, i suoi studi.
Anche come ex Presidente fu nobile, disdegnando ogni polemica postuma. Cornice dignitosa e solenne dei suoi ultimi anni – degna veramente di un uomo sereno nella coscienza del dovere compiuto – furono il silenzio della sua biblioteca di Dogliani e la sua attività di studioso instancabile.
Con la sua morte, il rimpianto nel vasto mondo del pensiero e delle idee è immenso.
Luigi Einaudi resterà per gli italiani un esempio di quanto un carattere fermo, una coscienza adamantina, un fervido ingegno possano elevare ad altezze prodigiose la personalità di un uomo, sì che anche quando, dopo un lento tramonto, giunge l’ombra della notte eterna, una luce diritta come un faro pare rimanga ancora perennemente accesa.
Onorevoli colleghi, tutta la nazione, non soltanto il Senato, è veramente in lutto.
È in lutto il mondo della cultura coi suoi atenei, le sue accademie, le sue fondazioni, che lo vollero ovunque partecipe della loro attività, per la profonda stima che circondava le sue opere ed il suo nome.
È in lutto il Partito liberale, che perde il suo grande capo spirituale ed un esempio luminoso per tutti.
A coloro che lo piangono, alla famiglia desolata – specialmente alla consorte inseparabile ed esemplare, rimasta sola, anche se l’affetto dei figli ed il sorriso dei nipoti le saranno sempre accanto – vada oggi l’espressione del nostro profondo cordoglio.
Autore: Politica News Redazione
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